domenica 26 gennaio 2014

Tutto a posto?



Fateci caso. Ormai i saluti di una volta servono assai poco, anzi non servono affatto. Si va subito al sodo, all’essenziale, al quintessenziale, quello di cui – sembra – non si può fare assolutamente a meno. La domandina d’incontro, condita dal consueto sorrisetto tra compiaciuto e complice, è quella che i linguisti usano definire retorica, in quanto già implicante risposta, negativa o positiva che sia. La quale, nel caso nostro, deve essere positiva, un bel sì forte e convinto. Se uno perciò, incontrandoti, ti domanda, con l’ineffabile sorriso di cui sopra, se tutto è a posto, guardati dal rispondergli che no e no, che nulla va bene, che niente, proprio niente è a posto. Gli daresti una stoccata micidiale e da quel momento ti eviterebbe forse come un appestato.
Come e perché mai allora questa ottimista formuletta dilaga per piazze, strade, case, corridoi, telefonate, alberghi, ristoranti, bar; perché – ci si chiede – viene ripetuta come un mantra e ce l’hai sempre tra i piedi?
Non ci vuole un’intelligenza sovrana né tantomeno s’ha da scomodare quella simpatica congrega di sociologi e/o psicologi che, accampati negli ovattati salotti televisivi, oracoleggiano e sdottoreggiano. Basta del buon senso, credo, per capire che ‘tutto è a posto’ o, in forma più succinta, ‘tutto a posto’ (da pronunciare – si badi – ‘tuttapposto’) rimanda ad un bisogno (inconscio) di stabilità, di conservazione. Ogni cosa, in altri termini, si vuole se ne stia al suo posto, abbia sua collocazione: proprio in quel punto, lì. E guai a spostarla di un millimetro che sia un millimetro. Niente movimento perciò, niente nuovo (per carità), tutto pietrificato, fossilizzato.
Il segnale non è di quelli che conciliano il sonno. Ti porta anzi a pensare a una società che galleggia: senza idee, senza prospettive, senza pensieri e senza speranza. Ma che tuttavia finge interesse per gli altri.
Tuttapposto? – Ma va’
Domenico Franciò

martedì 14 gennaio 2014

Lo sghignazzo



La gente non ride più, non sa più ridere. Sa solo sghignazzare. Che bella parola proprio non sembra col suo rimando a ghignare e, in un circuito perverso, a ghigno come approdo fatale. Le definizioni insistono sulla sguaiatezza a fine di scherno e derisione.
Guardiamo da vicino. Per sghignazzare bisogna essere – ovvio – almeno in due, ma, se di più, è – si fa per dire – ancor meglio.
A scanso di equivoci distinguerei preliminarmente due tipi: gli sghignazzanti, che sono temporanei e occasionali perché tutti, dico tutti, possiamo avere, o avere avuto, il nostro quarto d’ora di sghignazzo; e gli sghignazzatori, che non sono né temporanei né tantomeno occasionali e ingrossano a vista d’occhio. Ma non è solo per prendere in giro che si sghignazza. Ogni occasione, ogni spunto sono buoni per una bella e lauta sghignazzata.
Caratteristica principe del fenomeno è senza dubbio l’iteratività. Sghignazzo infatti come palla di gomma rimbalza dall’uno all’altro, da bocca a bocca, da ghigno a ghigno. È un contagio, una gara infinita e accanita a chi lo fa più forte, cioè più marcato, cioè più volgare. È come un pigiare, ricalcare, rincalzare a perdizione una nota sgangherata e stonata.
Felici non sono gli sghignazzatori, non hanno allegria dentro, né gioia o letizia, e dunque ciò che trasmettono è solo tetraggine e disperanza. Non c’è brillio di luce nei loro occhi, catafratti da opacità e trasudanti ebetudine. E questo perché? Ma perché non si crede in niente, non si ha nessuna fede, nulla riscalda ed emoziona, non si vuole il nuovo, si ha paura di tutto: non si guarda, insomma, al di là del proprio naso e del proprio ispido, arroccato ‘particulare’. Quel che avvia il motore può essere – spesso è – la sconcezza. Il primo Devoto-Oli reca a corollario della definizione una sintomatica citazione dello scrittore Tobino (Tobino? – Chi è costui?): «È sua gioia sghignazzare ogni sconcia parola».
Domenico Franciò