Fateci caso. Ormai i saluti di una
volta servono assai poco, anzi non servono affatto. Si va subito al sodo,
all’essenziale, al quintessenziale, quello di cui – sembra – non si può fare
assolutamente a meno. La domandina d’incontro, condita dal consueto sorrisetto
tra compiaciuto e complice, è quella che i linguisti usano definire retorica,
in quanto già implicante risposta, negativa o positiva che sia. La quale, nel
caso nostro, deve essere positiva, un bel sì forte e convinto. Se uno perciò,
incontrandoti, ti domanda, con l’ineffabile sorriso di cui sopra, se tutto è a
posto, guardati dal rispondergli che no e no, che nulla va bene, che niente,
proprio niente è a posto. Gli daresti una stoccata micidiale e da quel momento ti
eviterebbe forse come un appestato.
Come e perché mai allora questa ottimista
formuletta dilaga per piazze, strade, case, corridoi, telefonate, alberghi,
ristoranti, bar; perché – ci si chiede – viene ripetuta come un mantra e ce l’hai
sempre tra i piedi?
Non ci vuole un’intelligenza
sovrana né tantomeno s’ha da scomodare quella simpatica congrega di sociologi
e/o psicologi che, accampati negli ovattati salotti televisivi, oracoleggiano e
sdottoreggiano. Basta del buon senso, credo, per capire che ‘tutto è a posto’
o, in forma più succinta, ‘tutto a posto’ (da pronunciare – si badi – ‘tuttapposto’)
rimanda ad un bisogno (inconscio) di stabilità, di conservazione. Ogni cosa, in
altri termini, si vuole se ne stia al suo posto, abbia sua collocazione: proprio
in quel punto, lì. E guai a spostarla di un millimetro che sia un millimetro. Niente
movimento perciò, niente nuovo (per carità), tutto pietrificato, fossilizzato.
Il segnale non è di quelli che
conciliano il sonno. Ti porta anzi a pensare a una società che galleggia: senza
idee, senza prospettive, senza pensieri e senza speranza. Ma che tuttavia finge
interesse per gli altri.
Tuttapposto?
– Ma va’…
Domenico
Franciò