sabato 8 febbraio 2014

Recensione a “Breviario laico” di Gianfranco Ravasi, Mondadori 2006




La categoria a cui Gianfranco Ravasi, l’insigne biblista, sembra particolarmente sensibile è, a mio giudizio, la bellezza: bellezza della parola, della musica, della intelligenza, della sapienza, della religione. A voler ricercarne le radici penso non si sia tanto lontani dal vero nell’indicarle nella solida formazione classica, e nella paideia greca in particolare: lo straordinario amore per il greco antico, come lingua e come letteratura, trova più di un’occasione per manifestarsi. Ma non lo si prenda, per carità, per un esteta o estetizzante: la sua filocalia (amore del bello) è perfettamente fusa e non disgiungibile dalla formazione cristiana, portata – si sa – al massimo dei livelli. L’affermazione poi, più volte ribadita, della centralità di Gesù nella fede, al di là di certi facili e fuorvianti devozionalismi, ne fa un assertore persuasivo dell’autentico annuncio cristiano. La sua capacità di attingere a ogni letteratura, a valorizzare la sapienza ovunque sia dato trovarla (nell’Islam, nell’ebraismo, nel buddismo, oltre che – s’intende – nelle confessioni cristiane minoritarie) danno al suo cristianesimo un’apertura davvero ‘cattolica’ ed ecumenica liberandolo da ogni insidia, anche minima, di fondamentalismo. E dal sospetto di eclettismo o, peggio, di sincretismo basta a garantirlo l’amore appassionato e ardente per il Cristo.
Questo “Breviario laico”, per struttura formale e per la somiglianza dei contenuti, si pone sulla stessa linea dei numerosi volumi che anno dopo anno hanno radunato i “mattutini” apparsi sul quotidiano “L’avvenire”. L’aggettivo del titolo pare voglia abbracciare una più larga fascia di lettori da una base culturale la più ampia e varia, comprendente scrittori, filosofi, mistici e scienziati di tutti i tempi.
Di trasparente intelligenza è la composizione del libro. I testi, distribuiti per ognuno dei 366 giorni di un anno bisestile, muovono, tutti, da una citazione che offra spunto a riflettere. Il commento ai testi vuole suscitare una risonanza emotiva o favorire un indugio meditativo, un ripensamento. Alla brevitas dello spazio corrisponde una brevitas stilistica capace di sintesi fulminee, ma senza mai dare in secchezza o legnosità.
Il ‘moralista’ che è in Ravasi – la parola sia presa nel suo senso più nobile – scruta dall’osservatorio dei testi prescelti l’infinita fenomenologia dei comportamenti umani, senza mai porsi sul piedistallo di un giudizio inappellabile, e facendo sempre intravedere, là dove il negativo prevalga, un filo di luce, una lama di speranza. Se il libro, per sua struttura e per come indica il titolo, si offre alla lettura a modo di breviario, ossia con la possibilità di una metodica ruminazione giornaliera, in pratica è aperto a modalità di qualsiasi tipo: come, ad esempio, la lettura desultoria, la lettura ‘tematica’, ed altro ancora. E, se mi si concede, suggerirei al lettore, prima di leggere il commento dell’autore, di provarsi a ragionare un attimo con la sua testa e domandarsi che cosa avrebbe pensato o sentito da sé stesso. Si eviterebbe così una lettura meramente ricettiva a vantaggio di una dinamica, interagente coi pensieri e coi sentimenti dell’autore.
Quanto all’uso della citazione nel corpo del commento, è facile osservare che quella decisiva è spesso situata sul finale dell’argomentazione: con un evidente e perdurante effetto di rinforzo, o di scoperta, che richiama la tecnica epigrammatica.
Alcuni temi sono ricorrenti, sia che entrino direttamente nel discorso sia che si affaccino lateralmente, in corollario. All’autore piace poco – potrebbe essere altrimenti? – questa società frenetica, esagitata, assillata; con la testa  sprofondata nell’attimo (e fin nel detestabile attimino), che guarda solo al proprio tornaconto e a un edonismo effimero e senza ritegno, incapace di apprezzare il buono e il bello che s’annida nelle pieghe del quotidiano e del feriale. E vede Ravasi con lucidità che causa non secondaria di questa dissennatezza sono i mass media, specie la televisione, col suo carico di arroganza, intolleranza, sguaiataggine, villania. Al negativo e al distruttivo viene però contrapposta la gioia delle piccole cose, dell’impegno quotidiano, dei piccoli grandi gesti, la ricerca appassionata di Dio nel silenzio e nella preghiera, il far tacere e zittire tutti quei rumori che appannano e ottundono la nostra coscienza. E la parola soprattutto, quella che svegli dal torpore le anime spente, increspi il mar morto dell’abitudine, provochi un fremito (parola ricorrente) di vita, di calore.
A volte si è presi in un giro entusiasmante. Il concetto, che aveva trovato essenziale spiegazione, viene ribadito dalla sententia finale con un più di efficacia. Valga un esempio. A chiusura di un bellissimo episodio di francescana spiritualità (un frate di notte è colto dai tormenti della fame e San Francesco fa alzare tutti… per uno spuntino fuori programma) l’autore mette questo sigillo: «La debolezza deve essere sostenuta e sanata, non denunciata e umiliata».
Quando la citazione è piuttosto generica e lapidaria, come nel caso di un motto, vi si scava al punto da trovare una immagine più pertinente e attuale. Se la felicità è dunque equiparata per la fragilità al vetro, per Ravasi «non la si ha ma vi si è [colta l’allusione?], vivendo con noi stessi, con la nostra dimensione più profonda e spirituale». E, a sottolineare l’indifferenza e la noia indotte da un certo tipo di educazione religiosa (e di predicazione), fatta di santi e barbosi luoghi comuni, cosa c’è di meglio che piazzare in finale una micidiale stoccata di Bruce Marshall che così infilza una coppia di mezza età incontrata sul treno: «così indifferenti l’uno all’altra da far pensare che fossero sposati».
Domenico Franciò
[Articolo apparso su La scintilla del 23 marzo 2008]

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