domenica 9 febbraio 2014

Recensione a “Le parole e i giorni. Nuovo breviario laico” di Gianfranco Ravasi, Mondadori 2008




Il titolo, che riecheggia l’esiodeo con la sostituzione di ‘parole’ a ‘opere’, suggerisce non un’idea di contrasto ma, direi, di affinità: parole, cioè, che non sono, e non vogliono essere, flatus vocis ma, in senso pregnante, parole-azioni, parole-opere; con funzione dunque performativa: incidere la dura corteccia del mondo per tentare di cambiarlo. Il sottotitolo si riallaccia al precedente “Breviario laico”, programmato anch’esso per un anno bisestile, ogni giorno ospitando una pagina di commento ad una frase, un motto, un fatto, un pensiero. Quel tanto di ambiguità che potrebbe ingenerare la frizione tra il termine ‘breviario’, di chiara marca religiosa, e la qualifica di ‘laico’ nel senso più largo e autonomo, è superato dalla ‘confessione’ dell’autore, ecclesiastico e vescovo.
Attingendo al suo sterminato archivio culturale ed esistenziale, Ravasi conduce un’indagine a tutto campo sui comportamenti e sulla situazione dell’uomo d’oggi, sollecitato, in questo scandaglio, da due forze spirituali convergenti: l’aspirazione alla bellezza e all’armonia, e il sentimento d’amore nella sua triplice, canonica ripartizione di eros, filia e agape. E giacché sono tempi in cui la bellezza e l’amore, l’armonia e la pace subiscono i più duri affronti da forze politiche e sociali votate al disordine, al servilismo, all’arroganza, all’ingiustizia, all’interesse personale e di gruppo, ecco che al lettore è offerta la possibilità di una pausa, di un ristoro per liberarsi da una vita dissennata, insensata e volgare, e insieme ricercare i modi e i mezzi per elevarla a umana dignità.
In ogni pagina ad una parte negativa è opposta una parte positiva, e propositiva. E se il male è analizzato in tutte le sue possibili declinazioni più o meno evidenti, il bene è d’altra parte fermamente riproposto nella sua straordinaria vitalità e varietà di modulazioni.
Il libro si può leggere rapidamente, fors’anche di un fiato, o addirittura a perdifiato, ma in tal caso si andrebbe, certo, contro il presupposto strutturale dell’opera: che prevede una lettura lenta, sorseggiata: proprio per una giusta assimilazione e un proficuo faccia a faccia critico con le non poche vivande del succulento banchetto.
L’intento dell’autore si precisa fin dalle prime battute: e si tratta di un obiettivo alto, e luminoso: la prospettiva, con l’incastro di tanti tasselli, di una vita umana e cristiana realizzabile in pienezza e splendore. Un libro più sapienziale che morale, che spinge a vivere con semplicità, ma a pensare, a sentire in grande. Tutto il contrario della mediocrità, che, anteponendo come alibi il buon senso dei ‘benpensanti’, è in realtà esplicitazione di un atteggiamento piccolo, dimissionario, che si appaga di una palude comatosa. Del mediocre sono denunciati i maneggi atti a erodere la dignità altrui, i giudizi livorosi travestiti di perbenismo e di apparente equilibrio. Ma ecco come in fine viene liquidato: «Nemico di ogni impegno, di ogni grandezza, di ogni libertà di giudizio».
Molto vicina alla mediocrità è la stupidità intesa non tanto, o non solo, come un deficit intellettivo ma nel senso di una vera e propria carenza di umanità. La parola biblica non fa sconti allo stupido: «Il sapiente sa quel che dice, lo stupido dice quel che sa». Argomento su cui concordano fior di intellettuali ma sul quale tuttavia può venire a taglio, per raffreddare certi entusiasmi di chi fra noi si consideri esonerato ed esente, un’arguta riflessione di Giuseppe Pontiggia: «La stupidità degli altri è un bersaglio fisso, la nostra la scopriamo a poco a poco, con sorpresa inquieta e acquisizione sicura».
Sullo stato di salute della parola, Ravasi stila questo referto: spiace quando si presenta ingioiellata per coprire vuoti paurosi; spiace quando si fa prolissa e predicatoria; spiace quando il nero di seppia intende occultare l’intima sua povertà (avviene di certi teologi). A fronte di una tale crisi morale ecco alcuni rimedi. Riscoprire le perle della cultura, della spiritualità, della bellezza; farsi una mente aperta, un cuore largo e compassionevole, un’anima grande; mettere alla porta senza tanti riguardi chiacchiere e verbosità; perseguire il fremito della ricerca e dell’attesa; staccarsi dalla superbia e dal possesso; coltivare pace e purezza interiore; ricercare una fede viva e vera accantonando una religiosità esteriore e di parata.
Per dar vita a questo programma di salute pubblica e privata, fisica e spirituale, individuale e sociale, suggerirei di pensare un attimo, per rincuorarci, alle illuminanti parole di Sant’Agostino sull’inquietudine del cuore umano (inquietum est… “è inquieto il nostro cuore finché non riposi in Te”). Con l’aggiunta della ‘variante’, sorridente e spiritosa, proposta tanti anni fa al nostro autore dallo scrittore francese Julien Green: «Finché si è inquieti, si può stare tranquilli».
Domenico Franciò

[Articolo apparso su La scintilla del 10 maggio 2009]

Nessun commento:

Posta un commento