domenica 2 marzo 2014

Recensione a “L’uomo che non credeva in Dio” di Eugenio Scalfari, Einaudi 2008



Non era difficile pensare ad uno Scalfari diverso, e che aspetti inediti della sua personalità sarebbero venuti fuori. Così è stato. L’attacco del primo capitolo, con quel pianto infinitamente accorato e inconsolabile del bambino, che divide con la madre lo strazio di dovere lasciare l’amata casa, non poteva essere di più ispirata bellezza, di più struggente impatto emotivo.
Questa autobiografia, intessuta di privato e di pubblico, di personale e di sociale, non sembra tanto folta di episodi, di vicende, quanto piuttosto di pensieri e di riflessioni.
Il viaggio della memoria muove da un evento cruciale come il fascismo: la cui struttura di “cartapesta” solo più tardi si svelerà, e non certo all’adolescenza dell’autore, che come tanti suoi coetanei subì in pieno la seduzione di quel tragicomico apparato. E giacché la vita di un intellettuale si costruisce soprattutto con quel che si legge, ecco che il ricordo riattiva e ridefinisce tutti quei pensatori, filosofi e poeti che hanno offerto la materia prima alla costruzione dell’uomo. Decisivi si sono rivelati in tal senso filosofi come Descartes e Nietzsche: l’uno per l’argomentare chiaro e distinto, l’altro per la spregiudicatezza intellettuale; e poeti come Montale, “l’innamoramento” di tutta una vita.
I libri sono da sempre stati pane quotidiano, per opera di un padre che seppe travasargli amore per la letteratura, declamando D’Annunzio e Leopardi e leggendogli, pagina per pagina, quando ancora a scuola non si faceva, il romanzo del Manzoni. Una tenera, si direbbe oraziana, gratitudine è rivolta a quello “scapestrato” di papà, così puro come lo sono «tutte le forme autentiche, non corrotto dall’ipocrisia e dall’avarizia di sé».
Ragionando di politica, è escluso categoricamente che essa operi nell’ambito della morale: ci può essere tutt’al più qualche contatto, e men che superficiale. La politica non è un agire diretto – così un giorno apprese da Ugo La Malfa – ma un gioco di sponda, come nel biliardo: allo scopo, al successo si arriva solo per linee indirette.
Per caratterizzare la sua esperienza di direttore, Scalfari tira fuori un ricordo drammatico e, per certi versi, curioso. Dovendo prendere una decisione di estrema delicatezza – pubblicare o no un documento dei terroristi che avevano rapito un giudice – costretto a una prova di forza tra la linea morbida e la linea dura, ma deciso a ritrovare equilibrio e padronanza di sé, opta per una sospensione: una pausa che almeno attenui il tumulto dei sentimenti e lo restituisca a se stesso. Va in casa d’amici, si chiude in una stanza e, scelto l’Allegretto della Settima di Beethoven, si stende bocconi a terra per svuotarsi l’anima «dall’angoscia che l’opprimeva». E per scegliere, poi, senza esitazione alcuna, la soluzione giusta, quella che porterà al buon esito della vicenda.
L’autore non ha dubbi su quale sia l’età più felice per l’uomo: «L’infanzia è una stagione fatata. La sola di tutta una vita che non finisce mai e t’accompagna fino all’ultimo respiro». Ma anche la vecchiaia non è da buttare, quando non ci si faccia attanagliare dalla paura della morte e si reagisca con l’impegno del pensiero e del lavoro. L’uomo in ogni caso non deve tradire quello che è il proprium della sua specie: la ricerca del senso della vita. Egli è l’unico essere al mondo cosciente di sé, il solo che sappia di dover morire: quegli alberi, così intensamente amati e rispettati, non sanno di ospitare sui loro rami tanta ricchezza di creature; e queste, a loro volta, non sanno di esserne gli ospiti. L’innocenza della pietra, del falco, della tigre, del serpente, del fiume che straripa all’uomo è ontologicamente preclusa, negata.
Lo scrittore ha trovato da subito, per istinto o per una sorta di felicità comunicativa, il tono giusto per parlare alla mente e al cuore del lettore: il tono pacato di chi è capace di raccontarsi con sincerità, senza facili compiacimenti né leziose affettazioni o finalità segrete.
Il libro può leggersi, come si usa dire, d’un fiato, tanta ne è la scorrevolezza, anche quando vengono affrontate questioni complesse. La scrittura, per lo più piana, ha di tanto in tanto come dei soprassalti, delle vive accensioni. Nella parte finale, tentando una sorta di bilancio, Scalfari afferma con energia che due cose non riuscirebbe a perdonarsi mai. Primo, aver dato, per avarizia di sé, meno di quanto abbia ricevuto; secondo, essere stato un prevaricatore. E se anche, in definitiva, l’autore non pare animato dalla grande speranza cristiana, la sua adesione alla vita, pur con tutto il penoso e il difficile che comporta, è tanta e tale che non può non lasciare un riverbero positivo nell’animo dei suoi lettori.
 Domenico Franciò
[Articolo apparso su La scintilla del 27 luglio 2008]

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