mercoledì 7 maggio 2014

Recensione a “La direzione. Suite per Irene” di Vincenzo Leotta, Giambra Editori 2014



Si può affermare con un certo margine di sicurezza, e senza timore di incorrere nell’ira degli dei, che la nota dominante di questa silloge di Vincenzo Leotta sia un flusso d’amore bidirezionale. (Non certo casuale il titolo “La direzione”). Flusso d’amore ininterrotto dalla bimba Irene ai cari, dai cari ad Irene; vale a dire dal centro, che indubitabilmente è Irene, alla periferia, che sono i suoi familiari, in un virtuoso vortice incessante. Il vortice entro cui vagano, rapite da tempesta che mai non cessa, le anime sbigottite e vaganti di Paolo e Francesca.
Quanto al sottotitolo “Suite per Irene” non è che i dizionari siano prodighi al riguardo. Dicono che si tratta di un termine musicale, ed esattamente: «Composizione strumentale di origine barocca per danza in più tempi, ove si alternano pezzi in rapido movimento a pezzi a movimento lento».
Tocca perciò al critico, o comunque allo studioso, cercare di tirar fuori, snidare l’intenzionalità semantica affidata al termine. Operazione che va fatta sempre, crediamo, ἀπάλαις χερσίν, con mani delicate, ossia col tatto e la levità di tocco che la materia e la circostanza richiedono.
A me pare, stando anche all’etimologia che si lega chiaramente a ‘seguire’, che il poeta abbia pensato alla sua silloge come a qualcosa di compatto, ad una serie di tessere incastranti l’una nell’altra per un disegno nitido e coerente.
L’esame, analiticamente e concretamente condotto sulle diciotto poesie, si presta ad avvalorare questa impressione. Da ciascuna di esse – ma senza un ordine prestabilito né tantomeno sistemico, o sistematico, che, francamente, confessiamolo, non è nelle nostre corde, e ci toglierebbe respiro e libertà di movimento, preleviamo elementi puntuali, che confortino la tesi intravista.
Prendiamo 18. Esso compendia (ab uno disce omnes) la singolarità poetica della raccolta: i versi iniziali della felicissima battuta autoironica («Venuta l’ora, il più tardi però») s’innestano, con felicità e leggerezza, sulla espressione di candido affetto per la «dolce nipotina», facendo da supporto, in questo, la fede non certo ordinaria del nonno-poeta.
È ufficio e compito del nitore formale contenere dentro giusti argini una straripante tenerezza che altrimenti non si vede come poter fermare. Esaminiamo la prima poesia.
Chi non sa che Marzo è ‘pazzariello’, il mese buono per tutte le sorprese? Prove di partenza: pronta la valigia, timbrato il biglietto di sola andata, la mente e l’animo disposti all’altrove (nox una dormienda), quell’altrove misterioso che – si sa – non ammette ritorno né, aggiungiamo, moviola o replay (unde nullus numquam redit). Non aveva fatto però i conti il Nostro con l’improvvisa epifania della paciosa bimba Irene, che svoglia ad iniziare quel viaggio. Che altro fare allora quando accanto c’è una creaturina indifesa e inerme, se non sostenerla, anche se si è «debole», «infermo» di suo? La ‘rivoluzione’ diventa tutta una preziosa occasione per un osservare amoroso. La figlia felice, che dà il latte alla nipotina felice, è situata in un quadretto idillico, tenero e beato, che scioglie il sangue facendo rifluire la vita e disponendo a nuovi sogni, a «nuove follie» (2). La bimba sa astrarsi dal circostante per uno spazio tutto suo «le mille miglia distante», e dunque inattingibile, più che refrattaria, all’abbraccio. Il tema del desiderio d’amore circola come un fiume carsico, ma non è certo un fatto sporadico o occasionale (7).
In 15, l’osservazione analitica di ogni particolare del comportamento neonatale raggiunge l’apice. La citazione deve essere più corposa: «Non parla ma non c’è parte del corpo / quieta: gonfia gli occhi le gote / dimena le braccia le mani / ruota le testa a centottanta gradi / punta i piedi inarca la schiena… / Sembra un torello innanzi alla muleta». Come si vede, il ritmo si fa incalzante, dionisiaco: c’è come una ebbrezza, tra ammirata e amorosa, che penetra fino al midollo. Pura icasticità, l’iconico che prevale? La domanda è oziosa, non ha motivo di essere posta, in quanto resa vana dalla finezza finale: il pianto della bambina taglia – per così dire e anche per restare in tema – la testa al toro.
In 8, la bimba Irene si esibisce voluttuosamente nella lallatio: parla parole che sembrano prive di senso – e lo sono davvero ad occhio razionale ed alfabetizzato –. In realtà sono squisite e brillanti esercitazioni musicali su spartiti che tutti ignorano e che solo lei conosce a fondo: a sei mesi, dunque, la nostra Irene non trova di meglio che lallare e irridere chi tenta di capire le cose, usando di un unico codice interpretativo. Quasi d’obbligo la citazione: «Ma con gli occhi non trovi chi la superi: / – se ti guarda, t’incute soggezione / – se piange, un nodo ti serra la gola / – se sorride, ti credi in paradiso». Dalla soggezione (la bimba soggioga col suo volto serio e assorto) al nodo in gola, al sorriso paradisiaco, il passo è breve, e finalmente appagante.
Tra rabbia fin troppo ottimistica (Gott mit uns) e assenza di nemici (ne siamo proprio certi e sicuri?) e il fastidio per la chemio, ecco l’ἀπροσδόκητον, l’inatteso, ciò che ti ridà il sapore, il gusto sottrattoti al corpo in disarmo. Situazione nuova che potremmo etichettare ‘ribaltamento della situazione’. Anche qui (13), un dettaglio osservato con spirito d’amore (vv. 8-9: «succhiando il piedino con le labbra come fosse il seno della mamma»). L’immagine tratta da un salmo amoroso, significante l’estremo abbandono della creatura umana nelle braccia misericordiose di Dio.
In 10, trovo la spiegazione della mamma della bimba più che giusta e persuasiva. Lo splendore di bimba Irene aiuta il quasi-cieco nonno a ritrovarsi, ossia a vedere dentro il buio che sgomenta.
Il fulgore della bimba ha la meglio, la spunta sui chiari, inoppugnabili segnali di degrado (entropia) e di disfacimento che sono l’alloro spento, deprivato del suo verde manto, per solito lucido e denso. E poi, quel sole così stracco e stralunato, dall’alone che non promette nulla di buono.
Domenico Franciò

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