lunedì 25 gennaio 2016

Il Falstaff verdiano



Tempo fa ho visto alla televisione il Falstaff verdiano, che, come si sa, è l’ultimo, in ordine cronologico, capolavoro del genio di Busseto. Si trattava di una ripresa dal vivo dal Teatro del Maggio Musicale Fiorentino. La direzione era del grande Zubin Mehta, gli interpreti costituivano un cast che, per quanto possa immaginare, doveva essere di tutto rispetto. Il testo, mai banale, si incentra sull’espressione «Tutti gabbati», ripetuta quasi ossessivamente, o meglio con aria sorniona dal gigantesco e grasso protagonista, un basso dalla voce potente superbamente portata e modulata, e da un coro formato, in maggioranza, da donne. Un giovane tenore faceva da contrappunto al protagonista, ripetendo «Tutti gabbati». Il vertiginoso finale, tipico di tanti capolavori verdiani, trascinava gli spettatori ad un’ovazione lunghissima, ad entusiastici e protratti applausi. Poi, la solita passerella, con la compagnia cantante schierata sul proscenio a raccogliere, con grati inchini, l’esultanza del pubblico. Tenendosi per mano, formavano gruppo, quasi una catena.
I singoli cantanti si presentavano all’applauso secondo un ordine gerarchico costituito dai ruoli ricoperti. Naturalmente l’applauso più grande, incontenibile era per lui, il gigantesco Falstaff, ma – mi chiedevo – come si fa a trovare un personaggio per quel ruolo che unisca in sé stazza, talento e voce?
Credo che per un attore, un cantante, un regista non ci sia momento più gratificante del riconoscimento da parte del pubblico del suo valore e degli sforzi compiuti in vista della esibizione. Penso anche che la rivalità e gli antagonismi feroci più o meno latenti o sommersi, tra gli attori della scena in quel magico momento vengano superati, e non ci sia proprio posto per invidiuzze del genere.
Quando e se, poi, le rappresentazioni si concludono a tarda sera, va da sé che la compagnia starà ancora insieme; stavolta però intorno ad una mensa, dove tra coppe di vino scintillante e cibi squisiti si rilasserà dalla tensione e dalla fatica sostenute anche se – c’è da scommettere – qualche rimpianto affiorerà per una battuta non resa a dovere, per un gesto non proprio congruo, per una risatina non prevista dal copione...
Domenico Franciò
[Immagine "Falstaff in un dipinto di Eduard von Grützner" tratta da Wikipedia, l'enciclopedia libera]

mercoledì 6 gennaio 2016

Cane e padrone



Un giovanissimo cane Schnauzer, della più pura razza canina, quella così cara al Führer tedesco come prototipo di razza, andava spegnendosi. Una cosa che ti strappa il cuore dal petto.
Pensate. Un animale, vivo di una vita strabocchevole, un segno della vita quando essa appare in tutto il suo fulgore, in tutta la sua lussureggiante, prepotente vitalità, nel suo compiuto splendore. Questo cane – bello, magnifico, che tutti non gli negherebbero un complimento, un’ammirazione, un gesto affettuoso – questo cane ischeletrito dalla micidiale leishmaniosi, ridotto a una misera larva, a quattr’ossa vaganti e scollate, vive per una cosa sola: giocare. E tu, che non sei un perfido, un miserabile; se sei, sia pure indegnamente, uno che appartiene alla “razza” che dicesi umana; tu devi, dico devi, prestarti a giocare: con lui e come vuole lui, come si fa con qualunque cane del mondo. Tu gli tiri il legnetto e il pelleossa, che pare se lo siano mangiato i cani tanto appare spolpato – come qui pertinentemente si potrebbe dire – ha un solo desiderio: andare ad afferrarlo. E tu non devi fare altro che assecondarlo nella sua feroce volontà, vale a dire fargli gustare a sazietà, a scialo, l’ultimo piacere che la vita gli offre: giocare col (presunto) amico, del cui affetto lui ha sempre bisogno e del quale mai ha dubitato e dubiterà. Diavolo d’un cane! È mezzo morto, è più che morto, e non vuole smetterla, una volta per tutte, di tirare le cuoia, farla finita insomma con questa esistenza che altro non gli dà e gli ha dato come compagno e padrone se non quel bipede, cialtrone d’animo e di corpo. Eh, sì, diavolo di un cane che non sei altro: non ti sei capacitato, e mai forse ti capaciterai che lo strano individuo è in realtà il più feroce degli esseri viventi. Perché tu non ti sogneresti mai di portare guerra ai confratelli, e, se e quando lo facessi, sarebbe sempre per difendere, o compiacere, lo squallido essere che di te fa uso, nei casi migliori, per scienza e conoscenza (vedi la più delle volte disutile, impietosa, brutale, barbara pratica della vivisezione). Tu non fai guerra, dicevo, ai tuoi confratelli, fratello mio triste, dal tenero candore che sempre imperla muso e occhi. A te chiedo perdono. Lo faccio a nome – se mi è consentito – della stupidissima congrega che una cosa sola sa fare, in una sola cosa riesce bene: distruggere se stessa.
Quanto a te, amico mio dolcissimo, dimidium animae meae, abbiti, prenditi tutto il mio affetto e la mia eterna gratitudine. E accetta il ripullulante rimorso per quanto ti si è fatto soffrire. Pace in eterno, amico. Possa tu un giorno risorgere al cielo cui anche noi indegnamente aspiriamo.
Domenico Franciò